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Aceca de

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Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare - F. De Andrè

A quasi 13 anni dalla realizzazione del mio primo film come regista e dopo tanti progetti in cui ho fornito ad altri creatori e artisti le mie competenze di montatore e videografo, mi chiedo cosa mi abbia affascinato di più in questo linguaggio così ricco e complesso, a volte così difficile da utilizzare per questioni economiche e organizzative, mi chiedo cosa rende l'audiovisivo, sempre di più, uno strumento potente, in grado di attirare tanti spettatori, avidi di immagini in movimento, di ritmo, di storie, luce, musica, emozioni.

Penso che la ragione principale si possa riassumere in una singola parola: viaggio.

Purtroppo l'etimologia latina di questa parola è molto povera infatti il viaticum, da cui deriva, era ciò che serviva al viaggiatore durante il viaggio, la sua valigia insomma. Già in questa definizione si nasconde secondo me la paura  per il viaggio che viene visto come una mancanza da riempire col proprio viaticum: viaggiare consiste nell'avere ciò di cui si avrà bisogno lontano da casa insomma (quanti di noi passano ore piene di ansia a fare la propria valigia prima di partire per paura di ritrovarsi senza qualcosa di assolutamente indispensabile?).

Abbiamo bisogno di una casa, di una famiglia, di un luogo dove sentirci sicuri, questo da sempre, da quando, da nomadi, siamo diventati sedentari. E questo va bene, come fare a non condividerlo, ma io ho sempre e comunque sentito la necessità di "viaggiare", mettere in crisi le sicurezze e vedere dove questo mi porta.

Questa avidità per il cinema, per questa sala buia ricca di luoghi mai visti, gesti mai compiuti e storie mai vissute dallo spettatore, cos'altro è se non il luogo dei viaggi immaginari che vorremmo compiere e dei quali allo stesso tempo abbiamo una recondita ed atavica paura?

Ecco che i registi ci vengono in soccorso, sono loro a scovare per noi i luoghi più lontani (anche se a volte sono sotto casa) e le persone le quali, senza un film, non avremmo mai avuto modo di incontrare e ce li servono su un vassoio a forma di schermo, pronti per essere divorati dai nostri occhi.

Sono questo in fondo gli story tellers, dei viaggiatori instancabili  al servizio di potenziali viaggiatori...

Per far viaggiare qualcun altro è necessario che io stesso sia in viaggio, sempre, anche restando fermo, come quel narratore della mia infanzia, Emilio Salgari, che raccontò l'India senza mai nemmeno averci messo piede. 

Il mio primo film, "La conquista dell'America", mostra una coppia che vive in un appartamento e in un quotidiano simile a tanti altri, per poi un giorno andare poco lontano a trascorrere una domenica di inverno al mare e incontrare uno strano personaggio che vive da eremita nei resti di una colonia di vacanze abbandonata. Il viaggio è qui, dentro di noi e basta poco per passare dall'ordinario allo straordinario, per accendere l'infinita gamma di possibilità che ognuno di noi potrebbe vivere da un momento all'altro o per incontrarle nella vita di qualcun altro, basta che succeda qualcosa che non avevamo previsto, che non ci sia niente che avevamo messo in valigia prima di partire che ci possa aiutare e che cerchiamo il coraggio di abbandonarvici.

Il cinema è un invito a viaggiare senza valigia (o con una valigia molto leggera).

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