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Sono nato e cresciuto nell’istmo di Marcellinara, il punto più stretto d’Italia. Da casa mia vedevo due mari; a volte sembrava di stare su un’isola.
Si dice che un tempo fosse mare anche lo stretto fazzoletto di terra compreso tra Ionio e Tirreno sul quale passavo la mia infanzia e giovinezza e, a provarlo, ricordo che da ragazzo, nei mitici anni novanta, forse gli ultimi in cui si cresceva ancora, almeno dalle mie parti, più a contatto del mondo che potevamo vedere e toccare, trovavamo ancora delle conchiglie, sul monte Cocuzzo, fatto interamente di sabbia, là dove il mare, almeno a memoria d’uomo, non c’era mai stato.
Recentemente sono tornato a cercarne qualcuna, ma non le ho trovate. Forse perché le raccogliemmo tutte negli anni novanta o forse perché non sono più abbastanza ragazzo da riuscire a trovarle.
Non ho avuto una vocazione nella vita che fosse chiara fin dall’inizio, anzi.
Quando ero piccolo ero appassionato di scienze. Ricordo quando i miei genitori mi regalarono una di quelle scatole dell’apprendista scienziato e il microscopio rosso con tutti quei vetrini da indagare e classificare. Ma allo stesso tempo mi piacevano i racconti, soprattutto quelli di avventure marine come Ventimila leghe sotto i mari e con gli animali: ricordo un libro enorme di Salgari, sull’India, le tigri e altre esotiche meraviglie.
Ho iniziato a filmare quando da quell’istmo al centro del Mediterraneo mi spostai a Bologna per studiare in una facoltà che avevo scelto di mattina, a caso, leggendo un articolo di giornale poco prima di fare l’esame delle superiori. Niente vocazioni innate, niente sapere cosa voglio da sempre. I miei vent’anni sono stati un viaggio senza meta in cui però, per caso, ho trovato nella ripresa di immagini con piccole macchinette e nel racconto, un qualcosa che mi attraeva perché ci volevano notevoli conoscenze tecniche, ma allo stesso tempo si raccontava qualcosa, non per forza scientificamente certo.
 


 

E così entrai a far parte di OrfeoTv, un progetto di televisione di quartiere portato avanti dagli stessi militanti e intellettuali che avevano innalzato l’antenna di Radio Alice negli anni Settanta.
Facevamo riunioni infinite in una specie di scantinato, ricordo Stefano Bonaga che ci eccitava con la sua passione filosofica e Franco"Bifo" Berardi con quel suo parlare tanto lento e calmo quanto tagliente e forbito.
Non credo che Bologna fosse la mia città, ma è stata la città dei miei vent’anni, dello studio di una facoltà che non mi piaceva, di un test a ingegneria che avevo passato al tredicesimo posto e che non avevo scelto per paura di divenire uno scienziato poco attento ai racconti e alle storie. Delle serate ubriachi al Pratello, dei concerti all’XM24 e delle nottate passate nel garage di OrfeoTV a montare le interviste al macellaio del quartiere o a trasmettere qualche partita di calcio con il nostro commento brillo al posto di quello di Bruno Pizzul.
Dopo la pratica con il mediattivismo, o durante, conobbi e lavorai prima con Paolo Sbrango Marzoni dal quale ho appreso molto sul montaggio delle immagini in movimento e poi Adam e Davide, giovinastri studiosi del DAMS che se ne andavano in giro a girare cortometraggi. Fu amore a prima vista e come primo lavoro insieme girammo uno spot per un provolone, un contest in cui il miglior spot diventava lo spot ufficiale del provolone in questione (no, non vincemmo noi), in cui una mamma lanciava per aria un provolone e noi dovevamo riuscire a filmarlo per bene con i pochi mezzi che avevamo.
Oggi, più di quindici anni dopo, la Elenfantfilm è una realtà solida nella produzione e distribuzione di cortometraggi.
 
 



A un certo punto mi stancai di qualcosa, di una vita troppo regolare, di essermi stabilito a Bologna? Di aver giusto seguito la strada maestra? Di una città che avevo scelto a 18 anni, di mattina, su un quotidiano che sponsorizzava la facoltà di Scienze delle Comunicazioni di Umberto Eco (che non ho mai neanche visto in facoltà)?
Non lo so. La propulsione che ti spinge a fare qualcosa che in realtà “non dovresti” fare è qualcosa di misterioso, la stessa che spinge lo scienziato di Ventimila leghe a salire sulla Abraham Lincoln e cercare un narvalo gigante che la sua esperienza di scienziato gli suggerisce non esistere, ma lo fa lo stesso.
Ero a Venezia con la camera in mano per filmare il carnevale e vidi una ragazza  vestita da Peter Pan che truccava la gente fuori dalla stazione di Santa Lucia.
Me ne innamorai. Vivemmo a Padova per qualche mese in uno squallido quartiere insignificante e poi ci trasferimmo a Torino, così, per cambiare aria.
Iniziò il periodo della rabbia contro l’ideologia dominante, delle lotte anarchiche, dense a Torino da sempre, della protesta in Val Susa dove passai quasi tutto il 2011. Stavo difendendo una montagna e in effetti era questo che volevo fare, ritornare verso la natura, proteggerla, ri-conoscerla perché sentivo che stavo attraversando un’epoca in cui l’uomo si stava scollegando completamente da essa con pericolose conseguenze (che infatti sono sempre più visibili e concrete). Non mi interessava la lotta contro il nemico Stato (lo Stato siamo noi) ma piuttosto i giorni precedenti all’arrivo dello Stato in valle (sotto forma di migliaia di poliziotti dopati);  giorni in cui la gente della valle presidiava con serenità e determinazione il luogo in cui si pretendeva di forare le Alpi. Le discussioni, la convivenza, lo scambio di saperi all’ombra di alberi secolari e montagne millenarie
Non dimenticherò mai quando dopo gli scontri del 3 luglio con la polizia, risalendo la montagna, incontrammo un vecchio signore che alla sua veneranda età ancora zappava la terra e senza mai averci visto prima ci chiese semplicemente: Ci sono ancora i fascisti là sotto?
Per quell’uomo fascista era colui che si reca in un territorio e disturba la gente che ci vive, in pace.
 
 
 

Io e Sara ci stancammo della lotta a cielo aperto e partimmo con un vecchio camper del 1981 per Genova dove ci imbarcammo, a natale del 2011, per Barcellona, così, per cambiare aria.
Iniziammo la nostra vita nomade passando per Valencia, Granada e tanti altri luoghi che non ricordo più, ma non amavamo l’autostrada, questo è certo e così molto spesso il vecchio fiat ducato si inerpicava per montagne incredibili, con tutta la nostra vita stipata dietro, a 40-50 km l’ora, ma poi alla fine arrivava. Imparai a sistemare tubi, pompe dell’acqua, pannelli solari, le stesse cose che fanno quelli del club dei camperisti, ma non in garage per preparare le vacanze di agosto, ma sempre, tutti i giorni, in corsa. C’era qualcosa di estremamente eccitante nell’essere su qualcosa che si muove e che allo stesso tempo è casa tua. Per rimediare dei soldi in questo periodo facevamo dell’arte di strada con il mio sax e un telo di licra elastica nel quale Sara creava delle forme. Ce la cavavamo e dopo varie peripezie arrivammo a Cadiz, una vecchia città Fenicia sull’Atlantico, alle porte del Portogallo, un paese in cui mi sarei fermato per 4 anni.
A Lisbona ci arrivai a piedi. Sara mi lasciò in un antico sito preistorico vicino Evora, 40 km a est della capitale, e io terminai il viaggio verso la nostra meta finale a piedi camminando per una notte intera grazie agli effetti di una speciale infusione di semi di Datura. Mi ricordo che a un certo punto passai per un villaggio in piena notte dove c’erano dei bagni pubblici con le docce e l'acqua calda! Ancora oggi non so se tutto ciò sia successo veramente.
A Lisbona rimanemmo poco perché in realtà cercavamo una terra e una regione dove poterci installare e vivere in campagna. Fu nell’ambito di questo disegno che entrò nella mia vita Giulia. Un nostro amico in comune ce la presentò e proprio lei ci disse di andare nella Serra a est di Coimbra, una città tra Lisbona e Porto, perché ci vivevano molti stranieri che compravano o affittavano terreni per passare a una vita rurale e praticare la permacultura.
Là conoscemmo il vecchio Julho. Un signore che aveva passato 40 anni nelle colonie portoghesi d’Africa a commerciare chissà cosa e poi era tornato nel suo villaggio di trenta abitanti in Portogallo. Ogni tanto veniva a fargli visita dall'Africa o da Parigi uno dei suoi vari figli avuti in Africa.
Mi insegnò a distillare la grappa lui, con un enorme alambicco in rame da cento litri di capienza che sfornava 8-9 litri di grappa alla volta. L’unica cosa da sapere, mi disse, è come preparare il fuoco (rigorosamente di legna, niente gas). Si disponevano ad arte sotto la caldaia tre tipi diversi di carburante vegetale con diversi tempi di combustione e una volta acceso il fuoco lui non lo toccava più: la combustione, la sua propagazione, durata e intensità precise, erano loro a fare la grappa, mi disse, è il fuoco che fa la grappa non noi.
Julho ci prestò uno dei suoi terreni per viverci, restaurare una casa, coltivare e approfittare del fiume poco più sotto.
E’ stato un grande stage della mia vita. Avevo lavorato solo con un computer e là invece imparai a usare le mie mani e qualche decina di altri utensili. Studiai astronomia, botanica e tutte le cose che si studiano nell’università della vita, quella che scegli tu. Le strade con Sara si separarono e quando ormai avevo deciso di tornare nella "civiltà", perché volevo fare il regista e non l’agricoltore, a Lisbona, rincontrai a distanza di anni dalla prima volta, Giulia, per strada, per caso (?) il giorno prima che lei lasciasse la città lusitana per tornare dove era cresciuta, a Napoli.
Mi propose di andare a lavorare come stagionale in Francia per tirare su soldi veloci, spaccandosi la schiena con le viti. Accettai e dopo quell’esperienza decidemmo di farne un film a lungometraggio che cominciammo nel 2017 e che, oggi, è in distribuzione.
Sto di nuovo in una vita d'appartamento, ma sempre con quella voglia di cambiare aria.




 
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